Negli ultimi decenni il processo attraverso cui un problema non medico viene trattato come se fosse un problema medico, processo che viene definito con il termine di “medicalizzazione”, si è esteso in modo così rilevante nelle nostre società che ormai sono molti gli ambiti della esperienza umana che vengono interpretati alla luce del paradigma medico: sono trattati come malattie sia comportamenti che in passato venivano etichettati come devianti (alcolismo, gioco d’azzardo, ecc.) sia eventi e processi che in passato erano ritenuti fenomeni naturali (gravidanza, invecchiamento, ecc.). Tra i problemi non medici che vengono definiti e trattati come fossero disturbi emotivi o malattie, ve ne sono molti che rientrano tra gli ambiti di intervento dei Social workers. La tendenza alla medicalizzazione dei problemi che rientrano tra gli ambiti di intervento dei social workers pone una serie di questioni rilevanti. L’articolo mette a fuoco una questione centrale per il mandato istituzionale e professionale del social worker: in che modo la medicalizzazione (della devianza) influenza le forme con cui viene esercitato il controllo sociale? Per rispondere a tale interrogativo, in primo luogo, sono analizzati i modi con cui la medicalizzazione regola le condotte devianti. Successivamente, sono descritte le conseguenze “positive” e gli aspetti “latenti” ( “darker sides”) della medicalizzazione come meccanismo di regolazione della devianza. Infine, si evidenzia come la medicalizzazione della devianza, promuovendo un approccio clinico finalizzato alla “correzione” dei devianti piuttosto che alla loro “rivalutazione” (Matza), sia difficilmente compatibile con una pratica professionale che si fondi, come indicato nel Codice deontologico dell’Assistente sociale, “sul valore, sulla dignità e sulla unicità di tutte le persone, sul rispetto dei loro diritti universalmente riconosciuti e delle loro qualità originarie, quali libertà, uguaglianza, socialità, solidarietà, partecipazione, nonché sulla affermazione dei principi di giustizia ed equità sociali”. Si devono pertanto promuovere pratiche professionali che, rifuggendo dalla logica della medicalizzazione della devianza, rendano le relazioni di potere nell’ambito del social work potenzialmente trasformative, cioè in grado di conferire potere ai soggetti che sono “oggetto” dell’intervento sociale.

Medicalizzazione della devianza, controllo sociale e social work

SCARSCELLI, Daniele
2015-01-01

Abstract

Negli ultimi decenni il processo attraverso cui un problema non medico viene trattato come se fosse un problema medico, processo che viene definito con il termine di “medicalizzazione”, si è esteso in modo così rilevante nelle nostre società che ormai sono molti gli ambiti della esperienza umana che vengono interpretati alla luce del paradigma medico: sono trattati come malattie sia comportamenti che in passato venivano etichettati come devianti (alcolismo, gioco d’azzardo, ecc.) sia eventi e processi che in passato erano ritenuti fenomeni naturali (gravidanza, invecchiamento, ecc.). Tra i problemi non medici che vengono definiti e trattati come fossero disturbi emotivi o malattie, ve ne sono molti che rientrano tra gli ambiti di intervento dei Social workers. La tendenza alla medicalizzazione dei problemi che rientrano tra gli ambiti di intervento dei social workers pone una serie di questioni rilevanti. L’articolo mette a fuoco una questione centrale per il mandato istituzionale e professionale del social worker: in che modo la medicalizzazione (della devianza) influenza le forme con cui viene esercitato il controllo sociale? Per rispondere a tale interrogativo, in primo luogo, sono analizzati i modi con cui la medicalizzazione regola le condotte devianti. Successivamente, sono descritte le conseguenze “positive” e gli aspetti “latenti” ( “darker sides”) della medicalizzazione come meccanismo di regolazione della devianza. Infine, si evidenzia come la medicalizzazione della devianza, promuovendo un approccio clinico finalizzato alla “correzione” dei devianti piuttosto che alla loro “rivalutazione” (Matza), sia difficilmente compatibile con una pratica professionale che si fondi, come indicato nel Codice deontologico dell’Assistente sociale, “sul valore, sulla dignità e sulla unicità di tutte le persone, sul rispetto dei loro diritti universalmente riconosciuti e delle loro qualità originarie, quali libertà, uguaglianza, socialità, solidarietà, partecipazione, nonché sulla affermazione dei principi di giustizia ed equità sociali”. Si devono pertanto promuovere pratiche professionali che, rifuggendo dalla logica della medicalizzazione della devianza, rendano le relazioni di potere nell’ambito del social work potenzialmente trasformative, cioè in grado di conferire potere ai soggetti che sono “oggetto” dell’intervento sociale.
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