La psichiatria può essere intesa in almeno due sensi: …in senso ampio […], cioè come la scienza generale dei disturbi psichici, come tale praticata sia dagli psichiatri, sia da una parte degli psicologi clinici; sia, in senso molto più ristretto, può esser vista come quella parte dello studio dei disturbi psichici che viene svolta da medici e presenta qualche addentellato con lo studio del corpo (Jervis, 1996, p. 180). È solo nella prima – e più corretta – accezione che il termine sarà utilizzato in questo volume a più voci. Il suo scopo è quello di discutere se, ed eventualmente in quali modi, le scienze della mente e del cervello possano fornire teorie, metodi e dati utili per liberare la psichiatria da quelle antinomie che l’hanno afflitta fin dai suoi esordi. Da sempre, infatti, la psichiatria cerca di venire a capo della sua natura eterogenea, partecipe sia delle scienze biologiche sia delle scienze umane, a cavallo fra l’interpersonale e il personale, fra il sociale e l’individuale. Il quesito va inquadrato storicamente. Nel corso degli ultimi quarant’anni la scienza cognitiva si è espansa “in senso verticale”, verso il cervello: di conseguenza le neuroscienze sono divenute il principale interlocutore delle scienze psicologiche, andando a occupare nell’esagono cognitivo quel posto che negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso era stato dell’intelligenza artificiale. Di qui la nascita della neuroscienza cognitiva, ovvero il progetto di collegare funzioni psicologiche e strutture neuronali approntando spiegazioni meccaniciste dei processi cognitivi1. Premessa di Rossella Guerini e Massimo Marraffa psicopatologia e scienze della mente 14 buito a definire il campo della neuroscienza cognitiva. Attualmente è in preparazione la sesta edizione del testo. In precedenza, si era costituita, come settore della psicologia cognitiva, la neuropsicologia cognitiva. Lo studio dei deficit insorti in pazienti a seguito di lesioni cerebrali era qui rivolto primariamente alle inferenze che possono essere fatte riguardo l’organizzazione funzionale dei processi mentali, indipendentemente dalla loro localizzazione anatomica (Caramazza, 1986). A partire dagli anni Novanta, tuttavia, la neuropsicologia cognitiva tende a ridefinirsi come parte della neuroscienza cognitiva, e quindi a prendere come proprio oggetto d’indagine tanto l’organizzazione funzionale dei processi mentali quanto la loro localizzazione negli emisferi cerebrali e nelle strutture sottocorticali. In questa prospettiva, i risultati basati sui metodi di correlazione anatomo-clinica (per cui un particolare deficit neuropsicologico è correlato alla sede ed estensione della lesione cerebrale cui è associato) sono visti come strettamente complementari ai risultati ottenuti con le più recenti neurotecnologie: sia le tecnologie che producono “lesioni virtuali”, reversibili, come la stimolazione magnetica transcranica o la stimolazione cerebrale profonda, sia le tecniche della tomografia a emissione di positroni, della risonanza magnetica funzionale e dei potenziali evento-correlati, che consentono una precisa correlazione in vivo fra attività cognitiva e attivazione di specifiche regioni cerebrali. Negli anni Ottanta e Novanta la neuropsicologia cognitiva prima e la neuroscienza cognitiva poi hanno interagito con la psichiatria. Fra i primi esemplari di questa interazione figurano la spiegazione neuropsicologica di alcuni deliri da identificazione errata (Ellis, Young, 1990); l’ipotesi secondo cui l’insufficiente comprensione delle menti altrui riscontrabile in pazienti portatori di disturbi dello spettro autistico (ad alto funzionamento) sarebbe riconducibile alla compromissione di meccanismi deputati alla mentalizzazione (Baron-Cohen, Frith, Leslie, 1985); la definizione della schizofrenia come “autismo a tarda insorgenza” (Frith, 1992); e infine la spiegazione delle condotte psicopatiche come l’esito dell’assenza o del malfunzionamento di un “meccanismo di inibizione della violenza” (Blair, 1995). Alla luce di questi contributi pionieristici, alcuni studiosi cominciarono a nutrire la speranza che fosse possibile muovere verso una premessa 15 2. La sua prima stesura (dsm-i) da parte dell’Associazione Psichiatrica Americana (apa) è del 1952. Da allora si sono succeduti: il dsm-ii del 1968, il dsm-iii del 1980, il dsm-iii-Revised del 1987, il dsm-iv del 1994, il dsm-iv-Text Revision del 2000 e il dsm-5 del 2013. Cfr. Sirgiovanni (2016a). 3. “Disturbo” e non già “malattia”. Nell’attuale letteratura scientifica internazionale non si parla più di malattie mentali, come nella prima metà del Novecento, ma si usa un termine più neutro e unificante: si parla, cioè, di disorders – disturbi deliranti, disturbi ansiosi, e così via. 4. In medicina il sintomo è la sintomatologia soggettiva, il vissuto del paziente come da esso riferito; il segno è invece la sintomatologia oggettiva, un criterio oggettivo che può essere rilevato dal clinico mediante la semplice osservazione o per mezzo di test. tassonomia dei fenomeni psicopatologici fondata non già su criteri puramente fenomenologici, come avviene nel Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (dsm)2, bensì sulle teorie e i metodi delle scienze della mente e del cervello. Nel dsm – così come negli altri principali manuali diagnostici (per esempio l’International Classification of Diseases, icd, oggi alla undicesima edizione) –, i disturbi mentali3 sono individuati sulla base di sindromi unitarie, vale a dire sulla base di sintomi e segni4 con un decorso, un esito e una risposta al trattamento tipici. Tali sindromi sono però tipicamente formulate nel linguaggio vago e impreciso della fenomenologia clinica, caratterizzata dalla presenza di concetti psicologici e clinici del senso comune (Poland et al., 1994). In questo senso, il dsm non rappresenta affatto un approccio descrittivo e ateorico come pure pretende di essere. È in questo clima di svolta che nei primi anni Novanta si comincia a parlare di “neuropsichiatria cognitiva”. Hadyn Ellis è accreditato per essere stato il primo, nell’ottobre del 1991, a utilizzare in pubblico l’espressione cognitive neuropsychiatry per designare l’applicazione dei metodi della neuropsicologia cognitiva ai disturbi psichiatrici (Coltheart, 2007, p. 1042). Quindi, in Cognitive Neuropsychology of Schizophrenia (1992), Cristopher Frith getta le basi per la neuropsichiatria cognitiva, mostrando in modo sistematico come i principi della neuropsicologia cognitiva possono essere applicati ai fini della comprensione di sintomi psichiatrici quali i deliri e le allucinazioni. Nel 1996 viene pubblicato il volume, curato da Halligan e Marshall, Method in Madness: Case Studies in Cognitive Neuropsychiatry; e lo stesso anno esce il primo fascicolo della rivista “Cognitive Neuropsychiatry”. Più recentemente, in questa direzione si è mosso il National Institute of psicopatologia e scienze della mente 16 Mental Health con il progetto rdoc (Research Domain Criteria), volto a elaborare un nuovo sistema di classificazione dei disturbi mentali fondato sull’integrazione di dati provenienti dalla genetica, l’epigenetica e le neuroscienze. Questo riorientamento della psichiatria dal descrittivo all’eziologico è stato esaminato a fondo da Dominic Murphy (2006; cfr. anche Amoretti, Lalumera, 2018). Per questo filosofo, tale riorientamento equivale al superamento del modello medico “debole”, soggiacente al dsm, in favore di un nuovo paradigma medico “forte”, che definisce il disturbo mentale come un processo patologico che avviene nei sistemi cerebrali ed è individuato con i metodi d’indagine della neuroscienza cognitiva – per cui ora Murphy parla di «neuroscienza cognitiva clinica » anziché di «neuropsichiatria cognitiva». È legittimo chiedersi a questo punto se la neuroscienza cognitiva sia davvero in grado di svolgere tutto il lavoro esplicativo richiesto dalla psichiatria. In particolare, ci si può domandare se la neuroscienza cognitiva possieda le risorse necessarie per occuparsi delle dimensioni di livello personale della disciplina. La rilevanza della domanda varierà a seconda delle opinioni in merito al rapporto che intercorre fra l’immagine scientifica e l’immagine ordinaria di noi stessi. Ossia non costituisce un grande problema se nutriamo la convinzione che la visione di noi stessi come sistemi psicobiologici conduca alla radicale rettifica, se non addirittura all’eliminazione, di gran parte dell’immagine ordinaria di noi stessi in quanto persone dotate di coscienza e razionalità. È invece un grosso problema qualora si ritenga che l’immagine ordinaria imponga un vincolo ineliminabile sulla teorizzazione scientifica. In tal caso, come osservano Broome e Bortolotti, si rende opportuna una politica delle pari opportunità: «non vi è dubbio che le neuroscienze abbiano contribuito in modo importante alla comprensione delle patologie della mente»; ora, tuttavia, «è necessario riconciliare il discorso neuroscientifico con altri quadri esplicativi in modo da cogliere tutti gli aspetti del comportamento delle persone che sono rilevanti per lo studio della psichiatria» (Broome, Bortolotti, 2009, p. 365). A tutta questa intricata materia è dedicato il presente volume. È composto da tre parti così da consentire al lettore di meglio orientarsi nel fitto intrico di concetti e idee generato dall’interazione fra la psichiatria e le scienze della mente e del cervello. La prima parte comprende capitoli di impianto storico ed epistemologico, che si interrogano sulle prospettive e i problemi del progetto di una neuropsichiatria copremessa 17 gnitiva (o neuroscienza cognitiva clinica). La seconda parte esamina alcuni casi specifici di interazione tra psichiatria e scienze cognitive, inclusi i contributi pionieristici sopra menzionati. Infine, nella terza parte la teoria dell’attaccamento, in quanto tradizione psicodinamica di impianto etologico, cognitivo ed evoluzionistico, è presa come quadro di riferimento entro cui sono riesaminati temi psicoanalitici classici quali la regolazione delle emozioni, le difese, il trauma e la dissociazione.

Disturbi affettivi: trattamenti a confronto per prospettive future

Emiliano Loria;
2019-01-01

Abstract

La psichiatria può essere intesa in almeno due sensi: …in senso ampio […], cioè come la scienza generale dei disturbi psichici, come tale praticata sia dagli psichiatri, sia da una parte degli psicologi clinici; sia, in senso molto più ristretto, può esser vista come quella parte dello studio dei disturbi psichici che viene svolta da medici e presenta qualche addentellato con lo studio del corpo (Jervis, 1996, p. 180). È solo nella prima – e più corretta – accezione che il termine sarà utilizzato in questo volume a più voci. Il suo scopo è quello di discutere se, ed eventualmente in quali modi, le scienze della mente e del cervello possano fornire teorie, metodi e dati utili per liberare la psichiatria da quelle antinomie che l’hanno afflitta fin dai suoi esordi. Da sempre, infatti, la psichiatria cerca di venire a capo della sua natura eterogenea, partecipe sia delle scienze biologiche sia delle scienze umane, a cavallo fra l’interpersonale e il personale, fra il sociale e l’individuale. Il quesito va inquadrato storicamente. Nel corso degli ultimi quarant’anni la scienza cognitiva si è espansa “in senso verticale”, verso il cervello: di conseguenza le neuroscienze sono divenute il principale interlocutore delle scienze psicologiche, andando a occupare nell’esagono cognitivo quel posto che negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso era stato dell’intelligenza artificiale. Di qui la nascita della neuroscienza cognitiva, ovvero il progetto di collegare funzioni psicologiche e strutture neuronali approntando spiegazioni meccaniciste dei processi cognitivi1. Premessa di Rossella Guerini e Massimo Marraffa psicopatologia e scienze della mente 14 buito a definire il campo della neuroscienza cognitiva. Attualmente è in preparazione la sesta edizione del testo. In precedenza, si era costituita, come settore della psicologia cognitiva, la neuropsicologia cognitiva. Lo studio dei deficit insorti in pazienti a seguito di lesioni cerebrali era qui rivolto primariamente alle inferenze che possono essere fatte riguardo l’organizzazione funzionale dei processi mentali, indipendentemente dalla loro localizzazione anatomica (Caramazza, 1986). A partire dagli anni Novanta, tuttavia, la neuropsicologia cognitiva tende a ridefinirsi come parte della neuroscienza cognitiva, e quindi a prendere come proprio oggetto d’indagine tanto l’organizzazione funzionale dei processi mentali quanto la loro localizzazione negli emisferi cerebrali e nelle strutture sottocorticali. In questa prospettiva, i risultati basati sui metodi di correlazione anatomo-clinica (per cui un particolare deficit neuropsicologico è correlato alla sede ed estensione della lesione cerebrale cui è associato) sono visti come strettamente complementari ai risultati ottenuti con le più recenti neurotecnologie: sia le tecnologie che producono “lesioni virtuali”, reversibili, come la stimolazione magnetica transcranica o la stimolazione cerebrale profonda, sia le tecniche della tomografia a emissione di positroni, della risonanza magnetica funzionale e dei potenziali evento-correlati, che consentono una precisa correlazione in vivo fra attività cognitiva e attivazione di specifiche regioni cerebrali. Negli anni Ottanta e Novanta la neuropsicologia cognitiva prima e la neuroscienza cognitiva poi hanno interagito con la psichiatria. Fra i primi esemplari di questa interazione figurano la spiegazione neuropsicologica di alcuni deliri da identificazione errata (Ellis, Young, 1990); l’ipotesi secondo cui l’insufficiente comprensione delle menti altrui riscontrabile in pazienti portatori di disturbi dello spettro autistico (ad alto funzionamento) sarebbe riconducibile alla compromissione di meccanismi deputati alla mentalizzazione (Baron-Cohen, Frith, Leslie, 1985); la definizione della schizofrenia come “autismo a tarda insorgenza” (Frith, 1992); e infine la spiegazione delle condotte psicopatiche come l’esito dell’assenza o del malfunzionamento di un “meccanismo di inibizione della violenza” (Blair, 1995). Alla luce di questi contributi pionieristici, alcuni studiosi cominciarono a nutrire la speranza che fosse possibile muovere verso una premessa 15 2. La sua prima stesura (dsm-i) da parte dell’Associazione Psichiatrica Americana (apa) è del 1952. Da allora si sono succeduti: il dsm-ii del 1968, il dsm-iii del 1980, il dsm-iii-Revised del 1987, il dsm-iv del 1994, il dsm-iv-Text Revision del 2000 e il dsm-5 del 2013. Cfr. Sirgiovanni (2016a). 3. “Disturbo” e non già “malattia”. Nell’attuale letteratura scientifica internazionale non si parla più di malattie mentali, come nella prima metà del Novecento, ma si usa un termine più neutro e unificante: si parla, cioè, di disorders – disturbi deliranti, disturbi ansiosi, e così via. 4. In medicina il sintomo è la sintomatologia soggettiva, il vissuto del paziente come da esso riferito; il segno è invece la sintomatologia oggettiva, un criterio oggettivo che può essere rilevato dal clinico mediante la semplice osservazione o per mezzo di test. tassonomia dei fenomeni psicopatologici fondata non già su criteri puramente fenomenologici, come avviene nel Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (dsm)2, bensì sulle teorie e i metodi delle scienze della mente e del cervello. Nel dsm – così come negli altri principali manuali diagnostici (per esempio l’International Classification of Diseases, icd, oggi alla undicesima edizione) –, i disturbi mentali3 sono individuati sulla base di sindromi unitarie, vale a dire sulla base di sintomi e segni4 con un decorso, un esito e una risposta al trattamento tipici. Tali sindromi sono però tipicamente formulate nel linguaggio vago e impreciso della fenomenologia clinica, caratterizzata dalla presenza di concetti psicologici e clinici del senso comune (Poland et al., 1994). In questo senso, il dsm non rappresenta affatto un approccio descrittivo e ateorico come pure pretende di essere. È in questo clima di svolta che nei primi anni Novanta si comincia a parlare di “neuropsichiatria cognitiva”. Hadyn Ellis è accreditato per essere stato il primo, nell’ottobre del 1991, a utilizzare in pubblico l’espressione cognitive neuropsychiatry per designare l’applicazione dei metodi della neuropsicologia cognitiva ai disturbi psichiatrici (Coltheart, 2007, p. 1042). Quindi, in Cognitive Neuropsychology of Schizophrenia (1992), Cristopher Frith getta le basi per la neuropsichiatria cognitiva, mostrando in modo sistematico come i principi della neuropsicologia cognitiva possono essere applicati ai fini della comprensione di sintomi psichiatrici quali i deliri e le allucinazioni. Nel 1996 viene pubblicato il volume, curato da Halligan e Marshall, Method in Madness: Case Studies in Cognitive Neuropsychiatry; e lo stesso anno esce il primo fascicolo della rivista “Cognitive Neuropsychiatry”. Più recentemente, in questa direzione si è mosso il National Institute of psicopatologia e scienze della mente 16 Mental Health con il progetto rdoc (Research Domain Criteria), volto a elaborare un nuovo sistema di classificazione dei disturbi mentali fondato sull’integrazione di dati provenienti dalla genetica, l’epigenetica e le neuroscienze. Questo riorientamento della psichiatria dal descrittivo all’eziologico è stato esaminato a fondo da Dominic Murphy (2006; cfr. anche Amoretti, Lalumera, 2018). Per questo filosofo, tale riorientamento equivale al superamento del modello medico “debole”, soggiacente al dsm, in favore di un nuovo paradigma medico “forte”, che definisce il disturbo mentale come un processo patologico che avviene nei sistemi cerebrali ed è individuato con i metodi d’indagine della neuroscienza cognitiva – per cui ora Murphy parla di «neuroscienza cognitiva clinica » anziché di «neuropsichiatria cognitiva». È legittimo chiedersi a questo punto se la neuroscienza cognitiva sia davvero in grado di svolgere tutto il lavoro esplicativo richiesto dalla psichiatria. In particolare, ci si può domandare se la neuroscienza cognitiva possieda le risorse necessarie per occuparsi delle dimensioni di livello personale della disciplina. La rilevanza della domanda varierà a seconda delle opinioni in merito al rapporto che intercorre fra l’immagine scientifica e l’immagine ordinaria di noi stessi. Ossia non costituisce un grande problema se nutriamo la convinzione che la visione di noi stessi come sistemi psicobiologici conduca alla radicale rettifica, se non addirittura all’eliminazione, di gran parte dell’immagine ordinaria di noi stessi in quanto persone dotate di coscienza e razionalità. È invece un grosso problema qualora si ritenga che l’immagine ordinaria imponga un vincolo ineliminabile sulla teorizzazione scientifica. In tal caso, come osservano Broome e Bortolotti, si rende opportuna una politica delle pari opportunità: «non vi è dubbio che le neuroscienze abbiano contribuito in modo importante alla comprensione delle patologie della mente»; ora, tuttavia, «è necessario riconciliare il discorso neuroscientifico con altri quadri esplicativi in modo da cogliere tutti gli aspetti del comportamento delle persone che sono rilevanti per lo studio della psichiatria» (Broome, Bortolotti, 2009, p. 365). A tutta questa intricata materia è dedicato il presente volume. È composto da tre parti così da consentire al lettore di meglio orientarsi nel fitto intrico di concetti e idee generato dall’interazione fra la psichiatria e le scienze della mente e del cervello. La prima parte comprende capitoli di impianto storico ed epistemologico, che si interrogano sulle prospettive e i problemi del progetto di una neuropsichiatria copremessa 17 gnitiva (o neuroscienza cognitiva clinica). La seconda parte esamina alcuni casi specifici di interazione tra psichiatria e scienze cognitive, inclusi i contributi pionieristici sopra menzionati. Infine, nella terza parte la teoria dell’attaccamento, in quanto tradizione psicodinamica di impianto etologico, cognitivo ed evoluzionistico, è presa come quadro di riferimento entro cui sono riesaminati temi psicoanalitici classici quali la regolazione delle emozioni, le difese, il trauma e la dissociazione.
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