​Il lavoro si prefigge di dimostrare, in primo luogo, che l’abuso non può fare a meno della discrezionalità e che il giudice penale conosce l’atto amministrativo attraverso il quale la p.a. costituisce, modifica o estingue posizioni giuridiche soggettive (favorevoli o sfavorevoli) disapplicandolo. La disapplicazione dell’atto amministrativo e del regolamento da parte dell’autorità giudiziaria è uno “spaccato” del sistema istituzionale, attraverso il quale si entra nel vivo dei rapporti fra i poteri dello Stato. Il “sindacato” sull’amministrativo da parte dell’autorità giudiziaria ordinaria attiene, non più al risultato (la non applicazione dell’atto in un determinato giudizio) bensì al complesso dei poteri spettanti al giudice che l’atto deve considerare come applicabile o meno nel processo di cui trattasi. In seconda battuta, si mettono in risalto talune “costanti” delle condotte abusive dei pubblici agenti e che si possono racchiudere nella generale schematizzazione offerta dall’art. 61 n. 9 c.p. e cioè nell’abuso dei poteri o nella violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio che quel reato rendono possibile realizzare. Una ricostruzione sistematica delle disposizioni del codice porta a ritenere che dell’abuso può elaborarsi un concetto unitario, e che riposa nell’arbitrarietà di una condotta. Che cosa si intenda con arbitrario – nella grammatica del diritto penale – lo si può esprimere in termini oggettivi, come forma corrotta di uso del potere, alla quale è essenziale il riferimento ad un soggetto munito di autorità, in un malgoverno del potere che mina le basi stesse della convivenza civile. Dov’è chiaro che l’“arbitrarietà” rimanda ad un predicato di “illegittimità”, inteso come eccesso dai limiti delle attribuzioni del potere e, di conseguenza, contrario alla legge (perché viziato per eccesso di potere, violazione di legge o incompetenza e, nell’ipotesi di atti discrezionali, per non conformità allo scopo del potere discrezionale medesimo). Un’accezione soggettiva del termine è altrettanto sostenibile qualora il pubblico agente ecceda i limiti delle proprie attribuzioni con la consapevolezza di tale eccesso o addirittura con la deliberata volontà di porlo in essere in quanto tale, a danno del privato. Per superare lo stadio dell’illegittimità e giungere in quello dell’illiceità, è quindi necessario accertare la totale mancanza anche in astratto dei presupposti previsti dalla legge, ed una tale situazione ricorre allorquando l’atto del pubblico ufficiale non sia semplicemente erroneo o connotato da negligenza, imprudenza o imperizia ma sia caratterizzato dal deliberato proposito di eccedere le proprie attribuzioni per finalità diverse da quelle per cui gli sono stati attribuiti i pubblici poteri. Uno dei punti nevralgici della riforma del 2020 sta nel pretendere di cancellare d’un tratto un’acquisizione del diritto amministrativo, la cui centralità nel dibattito si saldò nei primi decenni del ‘900, con la posizione privilegiata che in quel periodo assunse, nella riflessione teorica, il provvedimento amministrativo autoritativo. Che l’autoritatività degli atti sia un requisito insopprimibile dell’attività amministrativa che attraverso questi si estrinseca è un dato acquisito. Da rimarcare è tuttavia che il «farsi dell’atto amministrativo», e cioè la sua funzione, sono fondati sulla discrezionalità e sul connesso problema dell’eccesso di potere, com’è testimoniato dalla teoria, elaborata in quel contesto, che lo configurò come «vizio della funzione». Anche l’“accertamento tecnico” può essere oggetto di sindacato pieno da parte del giudice amministrativo, dato che il criterio da usarsi per il fine che si vuole raggiungere è certamente discrezionale, trattandosi di una precomprensione del momento della valutazione. Si rimarca quindi il nesso tra funzione e discrezionalità nel senso che quest’ultima va rapportata alla prima e non già all’atto né al potere, posto che il potere è prius rispetto al suo esercizio, mentre all’atto, concretizzazione del potere, non può riferirsi una discrezionalità già esercitata. Quanto sostenuto è in perfetta linea con il dettato dell’art. 357 c.p. che ricollega la disciplina del potere da parte di norme di diritto pubblico alla manifestazione all’esterno della volontà della pubblica Amministrazione o del suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi e certificativi, coincidente, quindi, con il momento volitivo di una precedente rappresentazione dei fatti. Il c.d. “merito amministrativo” (inteso come “opportunità” e “convenienza”), tradizionalmente concepito quale area riservata alla Pubblica Amministrazione, diventa sindacabile dal giudice in sede di legittimità proprio attraverso il ricorso alla categoria dell’eccesso di potere. La discrezionalità amministrativa, intesa quale potere dell’Autorità, assume una fisionomia unitaria (e solo concettualmente distinguibile) tenuta insieme dal fine pubblico che attraversa sia la fase comparativa degli interessi in gioco, sia quella della scelta. Gli è che, gli studi sul potere discrezionale si intrecciano e si combinano con quelli dedicati ai principi di ragionevolezza e di proporzionalità, potendo affermare che la ragionevolezza attenga al procedimento di formazione della volontà, mentre la proporzionalità al risultato dell’attività provvedimentale. La perfetta simmetria instaurata fra poteri comunque diversi, fa sorgere, in entrambi i casi, un identico ordine di problemi ed illumina su di un equivoco terminologico fondato sulla riluttanza a stemperare il vocabolo “discrezionalità” in un significato così vago (e tra l’altro, inutile ai fini costruttivi) da equivalere a “non dovuto” ovvero “a non obbligatorio”. Va da sé che la locuzione «violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità» oltre ad importare un’inespressiva sovrastruttura linguistica, nuoce al corretto intendimento della realtà giuridica, giacchè riduce la “discrezionalità” ad una esangue categoria concettuale dove finiscono per essere sistemate classi di fenomeni assolutamente eterogenei. ragion per cui l’aggettivo “tecnica” si risolve in una nota ridondante, che nuoce più che giovare all’intendimento del fenomeno. L’esigenza di riportare il concetto di “discrezionalità” nel quadro di una valutazione normativa, superando l’ambiguo concetto di “libertà”, fa sì che la violazione dei doveri di ragionevolezza e di proporzionalità e, ancor di più di imparzialità (a cui la ragionevolezza va riportata) e, quindi, l’adeguamento dell’azione amministrativa a canoni di razionalità amministrativa, si risolvano nella violazione di una specifica regola di condotta prevista dalla legge ai sensi dell’art. 323 c.p. Non esiste, quindi, una “discrezionalità” pura o libera, ma esiste una “libertà” dell’attività decisionale (e/o provvedimentale) della pubblica Amministrazione. Abuso ed esercizio del potere, con riferimento tanto alla discrezionalità quanto all’attività vincolata – come ampiamente dimostrato – sono legati da un nesso funzionale e, voler arrestare il potere di valutazione del giudice alle soglie della discrezionalità espungendo questa dagli elementi normativi del precetto dell’art. 323 c.p. (mantenendo il richiamo all’abuso nella rubrica) crea ulteriori incoerenze sistematiche.

L’abuso d’ufficio fra potere discrezionale e legalità vincolante

Ruggiero Gianluca
2021-01-01

Abstract

​Il lavoro si prefigge di dimostrare, in primo luogo, che l’abuso non può fare a meno della discrezionalità e che il giudice penale conosce l’atto amministrativo attraverso il quale la p.a. costituisce, modifica o estingue posizioni giuridiche soggettive (favorevoli o sfavorevoli) disapplicandolo. La disapplicazione dell’atto amministrativo e del regolamento da parte dell’autorità giudiziaria è uno “spaccato” del sistema istituzionale, attraverso il quale si entra nel vivo dei rapporti fra i poteri dello Stato. Il “sindacato” sull’amministrativo da parte dell’autorità giudiziaria ordinaria attiene, non più al risultato (la non applicazione dell’atto in un determinato giudizio) bensì al complesso dei poteri spettanti al giudice che l’atto deve considerare come applicabile o meno nel processo di cui trattasi. In seconda battuta, si mettono in risalto talune “costanti” delle condotte abusive dei pubblici agenti e che si possono racchiudere nella generale schematizzazione offerta dall’art. 61 n. 9 c.p. e cioè nell’abuso dei poteri o nella violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio che quel reato rendono possibile realizzare. Una ricostruzione sistematica delle disposizioni del codice porta a ritenere che dell’abuso può elaborarsi un concetto unitario, e che riposa nell’arbitrarietà di una condotta. Che cosa si intenda con arbitrario – nella grammatica del diritto penale – lo si può esprimere in termini oggettivi, come forma corrotta di uso del potere, alla quale è essenziale il riferimento ad un soggetto munito di autorità, in un malgoverno del potere che mina le basi stesse della convivenza civile. Dov’è chiaro che l’“arbitrarietà” rimanda ad un predicato di “illegittimità”, inteso come eccesso dai limiti delle attribuzioni del potere e, di conseguenza, contrario alla legge (perché viziato per eccesso di potere, violazione di legge o incompetenza e, nell’ipotesi di atti discrezionali, per non conformità allo scopo del potere discrezionale medesimo). Un’accezione soggettiva del termine è altrettanto sostenibile qualora il pubblico agente ecceda i limiti delle proprie attribuzioni con la consapevolezza di tale eccesso o addirittura con la deliberata volontà di porlo in essere in quanto tale, a danno del privato. Per superare lo stadio dell’illegittimità e giungere in quello dell’illiceità, è quindi necessario accertare la totale mancanza anche in astratto dei presupposti previsti dalla legge, ed una tale situazione ricorre allorquando l’atto del pubblico ufficiale non sia semplicemente erroneo o connotato da negligenza, imprudenza o imperizia ma sia caratterizzato dal deliberato proposito di eccedere le proprie attribuzioni per finalità diverse da quelle per cui gli sono stati attribuiti i pubblici poteri. Uno dei punti nevralgici della riforma del 2020 sta nel pretendere di cancellare d’un tratto un’acquisizione del diritto amministrativo, la cui centralità nel dibattito si saldò nei primi decenni del ‘900, con la posizione privilegiata che in quel periodo assunse, nella riflessione teorica, il provvedimento amministrativo autoritativo. Che l’autoritatività degli atti sia un requisito insopprimibile dell’attività amministrativa che attraverso questi si estrinseca è un dato acquisito. Da rimarcare è tuttavia che il «farsi dell’atto amministrativo», e cioè la sua funzione, sono fondati sulla discrezionalità e sul connesso problema dell’eccesso di potere, com’è testimoniato dalla teoria, elaborata in quel contesto, che lo configurò come «vizio della funzione». Anche l’“accertamento tecnico” può essere oggetto di sindacato pieno da parte del giudice amministrativo, dato che il criterio da usarsi per il fine che si vuole raggiungere è certamente discrezionale, trattandosi di una precomprensione del momento della valutazione. Si rimarca quindi il nesso tra funzione e discrezionalità nel senso che quest’ultima va rapportata alla prima e non già all’atto né al potere, posto che il potere è prius rispetto al suo esercizio, mentre all’atto, concretizzazione del potere, non può riferirsi una discrezionalità già esercitata. Quanto sostenuto è in perfetta linea con il dettato dell’art. 357 c.p. che ricollega la disciplina del potere da parte di norme di diritto pubblico alla manifestazione all’esterno della volontà della pubblica Amministrazione o del suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi e certificativi, coincidente, quindi, con il momento volitivo di una precedente rappresentazione dei fatti. Il c.d. “merito amministrativo” (inteso come “opportunità” e “convenienza”), tradizionalmente concepito quale area riservata alla Pubblica Amministrazione, diventa sindacabile dal giudice in sede di legittimità proprio attraverso il ricorso alla categoria dell’eccesso di potere. La discrezionalità amministrativa, intesa quale potere dell’Autorità, assume una fisionomia unitaria (e solo concettualmente distinguibile) tenuta insieme dal fine pubblico che attraversa sia la fase comparativa degli interessi in gioco, sia quella della scelta. Gli è che, gli studi sul potere discrezionale si intrecciano e si combinano con quelli dedicati ai principi di ragionevolezza e di proporzionalità, potendo affermare che la ragionevolezza attenga al procedimento di formazione della volontà, mentre la proporzionalità al risultato dell’attività provvedimentale. La perfetta simmetria instaurata fra poteri comunque diversi, fa sorgere, in entrambi i casi, un identico ordine di problemi ed illumina su di un equivoco terminologico fondato sulla riluttanza a stemperare il vocabolo “discrezionalità” in un significato così vago (e tra l’altro, inutile ai fini costruttivi) da equivalere a “non dovuto” ovvero “a non obbligatorio”. Va da sé che la locuzione «violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità» oltre ad importare un’inespressiva sovrastruttura linguistica, nuoce al corretto intendimento della realtà giuridica, giacchè riduce la “discrezionalità” ad una esangue categoria concettuale dove finiscono per essere sistemate classi di fenomeni assolutamente eterogenei. ragion per cui l’aggettivo “tecnica” si risolve in una nota ridondante, che nuoce più che giovare all’intendimento del fenomeno. L’esigenza di riportare il concetto di “discrezionalità” nel quadro di una valutazione normativa, superando l’ambiguo concetto di “libertà”, fa sì che la violazione dei doveri di ragionevolezza e di proporzionalità e, ancor di più di imparzialità (a cui la ragionevolezza va riportata) e, quindi, l’adeguamento dell’azione amministrativa a canoni di razionalità amministrativa, si risolvano nella violazione di una specifica regola di condotta prevista dalla legge ai sensi dell’art. 323 c.p. Non esiste, quindi, una “discrezionalità” pura o libera, ma esiste una “libertà” dell’attività decisionale (e/o provvedimentale) della pubblica Amministrazione. Abuso ed esercizio del potere, con riferimento tanto alla discrezionalità quanto all’attività vincolata – come ampiamente dimostrato – sono legati da un nesso funzionale e, voler arrestare il potere di valutazione del giudice alle soglie della discrezionalità espungendo questa dagli elementi normativi del precetto dell’art. 323 c.p. (mantenendo il richiamo all’abuso nella rubrica) crea ulteriori incoerenze sistematiche.
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