Tra i modi di interpretare i conflitti intorno al superamento di modelli relazionali eteronormativi, si è fatta spazio negli ultimi anni la teoria del “Minority Stress” (MS) nel dare senso all’impatto che questi conflitti hanno sulle soggettività LGBTQ+ in termini di sofferenza per le microaggressioni quotidiane subite. Il termine MS si è diffuso ben oltre la terminologia psichiatrica, divenendo una buzzword efficace sia nell’immediatezza intuitiva con cui è capace di dare senso alla sofferenza creata dalle esperienze di misconoscimento e violenza, sia nella legittimazione scientifica che è capace di fornire a rivendicazioni di diritti. L'articolo esplora cosa accade alla teoria del MS “in azione”, con un’indagine empirica interdisciplinare, sociologica e psicologica, sui modi in cui il termine MS è utilizzato per dare senso a processi emotivi ed esperienze sociali LGBTQ+. Oltre all'analisi di materiale documentario e delle interazioni online e ad interviste, per osservare la produzione di significati in relazione alla nozione di MS in contesti locali di interazione sono stati realizzati cinque focus groups. Nei focus groups con attiviste/i e professioniste/i emerge una contraddizione di fondo: il MS dà l’opportunità di vedere riconosciuta la propria sofferenza e dunque la propria soggettività, ma se questa sofferenza resta ancorata all’essere minoranza rischia di mantenere i soggetti, individuali e collettivi, in una posizione di subordinazione e impotenza. Ne deriva un dilemma cruciale: come riconoscere e affrontare la propria sofferenza individuale preservando le possibilità di agency, il potere di trasformare il contesto sociopolitico che è all’origine di quella sofferenza? Questo dilemma è legato all'opacità epistemologica della teoria stessa nel collocare la sofferenza tra la dimensione individuale e quella collettiva, tra tendenze medicalizzanti ed emancipatorie, con il rischio di naturalizzare la “necessità” di una minoranza, dato che è questa categorizzazione identitaria che giustifica la teoria. Quando le discussioni nei focus groups restano centrate sui vissuti soggettivi e le capacità individuali di coping, non emergono chiare risposte: sembrano piuttosto riprodursi le implicazioni depoliticizzanti della logica liberale della tolleranza messe a fuoco da Wendy Brown. Emergono tuttavia, seppur marginali, visioni alternative che spostano il focus verso un progetto emancipativo di azione collettiva.
Minority stress in azione: l’uso del concetto in Italia tra riproduzione sociale e trasformazione
Bertone Chiara;
2022-01-01
Abstract
Tra i modi di interpretare i conflitti intorno al superamento di modelli relazionali eteronormativi, si è fatta spazio negli ultimi anni la teoria del “Minority Stress” (MS) nel dare senso all’impatto che questi conflitti hanno sulle soggettività LGBTQ+ in termini di sofferenza per le microaggressioni quotidiane subite. Il termine MS si è diffuso ben oltre la terminologia psichiatrica, divenendo una buzzword efficace sia nell’immediatezza intuitiva con cui è capace di dare senso alla sofferenza creata dalle esperienze di misconoscimento e violenza, sia nella legittimazione scientifica che è capace di fornire a rivendicazioni di diritti. L'articolo esplora cosa accade alla teoria del MS “in azione”, con un’indagine empirica interdisciplinare, sociologica e psicologica, sui modi in cui il termine MS è utilizzato per dare senso a processi emotivi ed esperienze sociali LGBTQ+. Oltre all'analisi di materiale documentario e delle interazioni online e ad interviste, per osservare la produzione di significati in relazione alla nozione di MS in contesti locali di interazione sono stati realizzati cinque focus groups. Nei focus groups con attiviste/i e professioniste/i emerge una contraddizione di fondo: il MS dà l’opportunità di vedere riconosciuta la propria sofferenza e dunque la propria soggettività, ma se questa sofferenza resta ancorata all’essere minoranza rischia di mantenere i soggetti, individuali e collettivi, in una posizione di subordinazione e impotenza. Ne deriva un dilemma cruciale: come riconoscere e affrontare la propria sofferenza individuale preservando le possibilità di agency, il potere di trasformare il contesto sociopolitico che è all’origine di quella sofferenza? Questo dilemma è legato all'opacità epistemologica della teoria stessa nel collocare la sofferenza tra la dimensione individuale e quella collettiva, tra tendenze medicalizzanti ed emancipatorie, con il rischio di naturalizzare la “necessità” di una minoranza, dato che è questa categorizzazione identitaria che giustifica la teoria. Quando le discussioni nei focus groups restano centrate sui vissuti soggettivi e le capacità individuali di coping, non emergono chiare risposte: sembrano piuttosto riprodursi le implicazioni depoliticizzanti della logica liberale della tolleranza messe a fuoco da Wendy Brown. Emergono tuttavia, seppur marginali, visioni alternative che spostano il focus verso un progetto emancipativo di azione collettiva.File | Dimensione | Formato | |
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