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“L’arbre qui se couvre de fleurs”.
Il peccato originale nel pensiero di Simone Weil*

IOLANDA POMA
Articolo pubblicato nella sezione "Chi è senza peccato..."

La forza del peccato. Il peccato della forza

Nel cuore di tenebra della tragedia di un mondo in fiamme, come in una ricostruzione eziologica, attraverso le dinamiche dell’oppressione e della violenza, Simone Weil giunge al cuore dell’uomo da cui dissotterrare le radici di quel male. Il male alligna nell’abuso della forza e il peccato dell’uomo ramifica nel suo libero arbitrio.
La forza si riconosce dal suo effetto di oppressione e la gravità ne è il simbolo, perché è una potenza che schiaccia, una pesantezza che sostituisce all’elevazione l’espansione, di cui si nutre l’istinto predatorio dell’essere umano. Nel peccato si obbedisce alla gravità della forza, attratti da un potere illimitato che essa di fatto non possiede e il cui esito concreto è quello di separare l’individuo dalla realtà (indizio sempre certo della presenza del peccato): «La nostra anima è separata da ogni realtà da una pellicola di egoismo, di soggettività, d’illusione» (Weil 2005, p. 339).
Le diverse forme del peccato hanno come denominatore comune la separazione: ciò che doveva essere unito, è stato arbitrariamente separato. Vale per il rapporto con la natura e con Dio, ma vale anche per il lavoro, lacerato dalla divisione tra pensiero e azione; o vale per la scienza, che ha sacrificato la spiritualità del mondo al meccanismo di causa ed effetto. Non possedere gli strumenti per riconoscere il proprio interlocutore (che sia la natura, Dio, la collettività anonima o la macchina in officina) porta l’uomo ad attribuirgli una forza misteriosa da cui si sente oppresso. Associando poi questa impenetrabilità all’arbitrio, la sua subordinazione si ammanta del peso dell’umiliazione e alimenta il suo impulso a ribellarsi. Non deve sembrare eretico aggiungere all’elenco dei termini con cui l’uomo può trovarsi in un rapporto di conflittuale separazione anche quello della macchina, perché Weil coglie di quel rapporto un carattere che lo collega agli altri: anche in questo caso, in mancanza di conoscenze, la macchina diventa un essere vivente misterioso con poteri magici e capricciosi (Weil aveva visto e apprezzato Tempi moderni di Chaplin). E chi si sente sottomesso a una natura capricciosa si sente schiavo.
L’attrazione esercitata dalla forza nutre quella «falsa divinità con la quale siamo nati» (Weil 1997, p. 137). In questo modo Weil colloca la radice di quell’illusione nel cuore dell’atto creativo: creando, Dio ha creato la possibilità del peccato, perché ha dato vita a una «creatura che preferisce se stessa a Dio» (Weil 1995, p. 277), e questo si è reso possibile perché «Dio gli ha conferito un’immagine immaginaria di questo potere, una divinità immaginaria, in modo che fosse possibile anche a lui, pur essendo una creatura, di svuotarsi della sua divinità» (Weil 2009, p. 118). A causa dell’illusione prospettica con cui è stato creato, l’uomo s’immagina al centro di un universo a sua disposizione. Solo disfacendosi di questa apparenza, rifiutandosi di essere un falso dio, egli potrà destarsi alla reale divinità del bene.
Naturalmente non si può negare un uso indispensabile della forza, ma solo di quella che trova nell’ordine naturale il suo modello, il quale conosce l’ineludibilità del limite. Questo fa sì che la necessità naturale, sebbene spietata, non esprima la forza, ma il suo dominio regolato. La forza che invece acceca gli uomini non conosce né regola né limite.
Solo l’Amore non forza mai e non viene mai forzato (cfr. Weil 1995, p. 142) ed è l’amore a porre rimedio alla separazione della creatura dal creatore, in cui consiste il peccato: «L’Amore è il medico del peccato originale» (ivi, p. 236). L’amore, ma anche termini descritti come luoghi della separazione, come il lavoro, la scienza, lo stesso essere umano e il suo corpo, possono diventare mediatori all’interno della relazione con la macchina, la natura, Dio.


La prima scena. Genesi

Nella storia dell’umanità il peccato sembra farsi connotare dal fatto di trovarsi in una certa proporzione rispetto al potere a cui, nella sua forma pur distorta, l’uomo si rapporta. L’essere umano che ha peccato e che continua a farlo è colui che ha adottato un atteggiamento mimetico rispetto a un antagonista, di cui subisce ma di cui anche invidia la forza, che egli ha quindi male interpretato; così «ha scelto male, ha scelto il male» (Weil 2011b, p. 676).
Con ricorsività l’uomo fa coincidere le figure di cui riconosce la strepitosa grandezza con l’emblema di un potere assoluto e totalizzante, di cui egli patisce il vincolo di dipendenza e il peso della sottomissione. E nella versione antropomorfica del racconto della Genesi, il divieto divino di non mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male dev’essere certo sembrato (sobillati dal serpente) un ordine impartito per capriccio arbitrario. Con precisione radiografica Weil annota: «Nel male, vi è una costrizione che spinge e un desiderio di conoscenza che attira, il presentimento di un segreto (…). Potenza e conoscenza, duplice tentazione» (Weil 1982, p. 350).
Quella prima scena che vede il confronto fra l’uomo e Dio può allora essere descritta, ab homine, come un rapporto tra chi è sottomesso e chi comanda. La dipendenza patita sibila nella voce del serpente, che s’insinua in quella relazione, facendone sospettare un’intrinseca “ingiustizia”, quella che poi si realizzerà storicamente nel rapporto da uomo a uomo, sicuramente già ben presente nell’esperienza degli autori biblici che narrarono e scrissero quella storia dell’inizio. L’essere umano intende quel rapporto come rapporto arbitrario e, in quanto tale, sempre pronto a ribaltarsi in infiniti capovolgimenti tra oppressione e subordinazione. Il serpente instilla, come un veleno, il dubbio circa la legittimità del comando impartito. Se quel comando è frutto di un puro arbitrio, per quanto assoluto esso possa sembrare, niente può escludere il carattere temporaneo di quella ripartizione di ruoli e quindi un’interscambiabilità delle rispettive posizioni, prefigurando una possibilità che rappresenta qualcosa di più forte di una semplice tentazione che titilla la mente. Entrando nel gioco a clessidra della forza, anche chi vuole liberarsene non è preservato dalla voglia di esercitarla.
«Rappresentarsi Dio onnipotente significa rappresentare se stessi nello stato di falsa divinità» (Weil 1997, p. 228), mentre invece da Dio ci viene chiesto di «spogliarci di quella rassomiglianza con Dio che ci fa re e padroni del mondo» (ivi, p. 143). Il “sarete come dei” suggerisce la possibilità allettante di entrare in possesso della potenza divina. Il serpente, con la prima domanda che pone a Eva (“È vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?”), distorce la realtà dei fatti, estendendo il divieto e anche se Eva puntualizza, correggendolo (“Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare”), la retorica dell’esagerazione e dello stravolgimento ha ormai intaccato il discorso della donna che perde di obiettività (“del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”). La percezione di un’assurdità del comando è ormai penetrata nel pensiero dell’essere umano.
Ritornando a quella scena primordiale, se ne può però cogliere un indizio prezioso per recuperare «l’istante che ha preceduto la cattiva scelta» (Weil 2011b, p. 676). Il “sarete come dei”, se non guidato dalla brama di potere, contiene infatti in sé la traccia di un percorso alternativo di rigenerazione, che potremmo definire una “seconda scelta” per un’altra storia, che non cessa di confluire, intrecciandosi, alla prima. Simone Weil scava nel testo di ciò che è stato, per far emergere l’altrimenti che pur vi era contenuto.
Perché rinunciare al frutto di quest’albero “buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza” (Gn, 3,6)? Perché Dio impone questo divieto? Per mettere gli uomini alla prova o, addirittura, per dimostrare la sua forza o, peggio ancora, perché teme la concorrenza umana? È proprio in alternativa alle interpretazioni che questi quesiti sottendono, che germina il seme di una nuova comprensione: seguendo il suo comando-invito, Dio ci indica come possiamo davvero farci come lui, a lui simili. Per essere divini, occorre respingere la falsa divinità, rispettare il limite: «Nella condotta della vita, è ancora il limite a portare dal tempo all’eternità, il “mai”. Non mangerai i frutti di questo albero» (Weil 2005, p. 159). Questo debella ogni presunzione d’illimitatezza e non è frutto di una decisione: «L’effetto di una decisione dura un giorno, otto giorni, vent’anni, più di una vita umana, ma non sempre. Nessuna decisione porta nell’eternità. Al contrario “non farai questo” significa “non farai mai questo”, anche se tu vivessi cento secoli. L’obbedienza accettata porta il centro dell’anima nell’eternità» (ibidem).
Accecati dalla vertigine dell’illimitatezza, Adamo ed Eva forzano il divieto, mancano il bersaglio, turbano l’equilibrio preesistente: scelgono male, scelgono il male, compiendo un atto di forza per raggiungere l’obiettivo (irraggiungibile) di essere come il Dio Onnipotente. Con il suo gesto, la prima coppia umana dimostra di non aver compreso la lezione impartita dal comando di non mangiare dell’albero: la lezione del limite. Il peccato è abitato dall’illimitatezza e dall’irrealtà, perché nella realtà le possibilità sono sempre limitate.
Adamo ed Eva, tentati dal potere, si lasciano guidare dal desiderio di esistere: il loro riferimento va unicamente a se stessi. Essi peccano, perché vogliono “farsi un nome” – che in termini biblici può tradursi nell’espressione “essere come Dio” – là dove però Dio non è un nome proprio, è l’innominabile, traccia nominale della sua ritrazione. Adamo ed Eva peccano, perché invece s’interpongono tra Dio e la creazione, credendosi qualcosa e diventano così di ostacolo al loro contatto. Il peccato è quel qualcosa che illude l’essere umano di essere tutto.
«“Sarete come dèi” (Gn). Il peccato è desiderare di essere come dèi in altro modo che partecipando alla divinità di Dio. Noi nasciamo con questo peccato. È il peccato luciferino. Voler essere divini in quanto creature» (Weil 1997, p. 137). Adamo ed Eva vogliono essere come Dio, ma senza Dio: si preferiscono a Dio, perché, in un rapporto giudicato di forza, o si domina o si è dominati. Questo scioglie il loro legame: «Ci siamo separati da Dio per il desiderio di partecipare alla divinità mediante la potenza e non mediante l’amore, mediante l’essere e non mediante il non-essere» (Weil 1995, p. 250). Così dicendo, Simone Weil fa emergere in controluce la possibilità di partecipare alla divinità mediante l’amore e mediante il proprio non-essere, perché nel cercare d’identificarci a Dio secondo la potenza e secondo il nostro essere consiste il peccato. Dopo quella perduta con il peccato, la nuova unità sarà superiore, perché ottenuta con il riscatto della colpa, realizzato nell’incarnazione: «Così l’uomo può veramente diventare sicut deus. Il serpente aveva dunque detto il vero (...). “Eritis sicut dei, scientes bonum et malum”: questo è rigorosamente vero mediante il riscatto» (Weil 1997, p. 162).


Azione umana e azione divina, luogo di una ritrovata prossimità

Se riferito non alla potenza di Dio ma alla sua azione, il “sarete come dei”, potrebbe sciogliere il nodo male-castigo, peccato-sventura. Fatta salva una differenza sostanziale tra uomo e Dio – preservata dal “come” – che cosa ci rende “come” Dio? Mentre molta esegesi biblica sottolinea come il compito dell’uomo non debba essere quello di ripetere l’azione di Dio, Simone Weil apre invece la parola “azione divina”, per coglierne un altro significato che diventi il luogo di una possibile prossimità dell’uomo a Dio. L’azione divina nella creazione coincide per Weil con l’auto-sottrazione di Dio: «La creazione è da parte di Dio non un atto di espansione di sé, ma un ritirarsi, un atto di rinuncia». Dio, pur onnipotente, «non comanda ovunque ne avrebbe il potere» (Weil 2009, p. 106). Dio non esercita un potere arbitrario, come sovrano capriccioso, in questo vicino piuttosto alla virtù d’indifferenza dello stoicismo greco e del pensiero induista (cfr. Weil 1996, p. 69). In questo senso «la creazione è già passione» (Weil 1995, p. 277).
Di questa azione l’uomo può ripetere in sé il movimento di autoannullamento, di decreazione: simile all’agire divino nel togliere e non nell’aggiungere, che è invece la brama che guida i nostri progenitori mitici. «Il nostro peccato consiste nel volere essere, e il nostro castigo è credere di essere. L’espiazione sta nel non voler più essere; e la salvezza per noi consiste nel vedere che non siamo (...). Per insegnarci che siamo non-essere, Dio si è fatto non-essere» (Weil 2005, p. 248): abdicando alla nostra esistenza di creature, riflesso dell’abdicazione divina in cui si è data la creazione, raggiungeremo una realtà che è quella per la quale siamo stati creati, la realtà del bene puro, che è al di là dell’essere e dell’esistenza. In questo senso non c’è un giudizio negativo di Simone Weil sulla creazione, nella cui lancinante bellezza si leggono i simboli delle verità soprannaturali. Si tratta piuttosto di suscitare il necessario contenimento di una creatura umana che, nel suo delirante amore di sé, si crede infinito, eterno e divino. Per questo la decreazione si pone come «compimento trascendente della creazione» (Weil 1995, p. 164): Dio vuole compiere la creazione con l’essere umano! Infatti solo per il tramite della creatura umana Dio può percepire la propria creazione, ma ciò può avvenire a condizione che la creatura si ritragga, diventando un foro o un vetro trasparente attraverso cui Dio e la creazione tornano a guardarsi. In questo modo l’essere umano diviene come Dio: «Dio non può amare in noi che questo consenso a ritirarci per lasciarlo passare, come egli stesso, creatore, si è ritirato per lasciarci essere» (Weil 1995, p. 69).
Nel movimento iniziato in Dio, che «concede l’esistenza all’uomo affinché l’uomo abbia la possibilità di rinunciarvi per amore di Dio» (Weil 2014, p. 191), sembra prospettarsi la declinazione di una teologia catafatica, che afferma di Dio e delle creature le stesse qualità, in questo caso gli stessi movimenti e processi: verbi come quello di limitare, spogliarsi, rinunciare, abbassarsi, riflettono un atteggiamento di totale passività dell’io, che sparisce come io, ma non come essere umano. Se la prima umanità lo avesse intuito, imitando l’azione di Dio, sarebbe allora diventata divina con Dio. Il processo decreativo lavora ad abolire l’Io, quest’ombra che arresta la luce divina e che noi scambiamo per un essere. Questo è il peccato; occorre quindi eliminare la parte in noi che dice “io”: «Sottraendo l’io al peccato, estenuo il peccato e abolisco l’io» (Weil 1997, p. 214).
L’agire simile a Dio è un non-agire, come quello che un’adolescente Weil riconosce nel racconto dei Sei cigni dei fratelli Grimm: una ragazza può salvare i suoi sei fratelli, vittime di un sortilegio che li ha trasformati in cigni, se per sei anni, senza mai ridere né parlare, cucirà per loro sei camicie di anemoni: «La sola forza e la sola virtù è di trattenersi dall’agire» (Weil 2011a, p. 804). Molti anni dopo, a fianco del titolo di questa fiaba della redenzione, annoterà il verso di Isaia 53,7: «Maltrattato, ingiuriato, egli non aprì bocca». Occorre lasciarsi ispirare dalla crescita esponenziale del seme della parabola evangelica. Non-agire significa accettare il proprio non-essere, il vuoto, senza tentare di colmarlo, perché proprio in ciò consiste il peccato. Il vuoto si mantiene, rifiutando l’assenso a tutto ciò che non è divino, staccandosi dal regno della forza, semplicemente non adorandola. In questo modo ci si dispone all’entrata della grazia. Non si tratta di un processo che dipenda da uno sforzo di volontà, che sarebbe di nuovo espressione di forza. Piuttosto, «il passaggio al trascendente avviene quando le facoltà umane – intelligenza, volontà, amore umano – cozzano contro un limite, e l’essere umano resta sulla soglia, al di là della quale non può fare un passo, e questo senza lasciarsene distogliere, senza sapere ciò che desidera e teso nell’attesa» (Weil 2005, p. 363).
L’azione non-agente si produce nell’uomo come una postura che è simile al movimento espresso dalla frase evangelica: «Chi si abbassa sarà elevato», ossia quel «movimento discendente come condizione preliminare di un movimento ascendente» (Weil 1997, p. 143), che produce una sorta di caduta verso l’alto. È il pensiero rovesciato, o inverso, che sovverte la normale logica del mondo.


Libero arbitrio, il dono da distruggere

«Il sacrificio di Dio è la creazione; quello dell’uomo la distruzione. L’uomo ha comunque il diritto di distruggere solo ciò che gli appartiene; cioè neppure il suo corpo, ma esclusivamente la sua volontà» (Weil 2005, p. 241). La parte dell’uomo da sottoporre a un processo di decreazione è il suo libero arbitrio, perché è esso a realizzare il peccato. Dio ci crea con qualcosa che ci chiede di distruggere per ricongiungerci a lui: la creazione coincide con il dono del libero arbitrio. In questo senso,

«la creazione e il peccato originale non sono altro che due aspetti, differenti per noi, di un atto unico di abdicazione di Dio. E anche l’Incarnazione, la Passione, sono aspetti di questo atto. Dio si è svuotato della sua divinità e ci ha riempito di una falsa divinità. Svuotiamoci di essa. Questo atto è il fine dell’atto che ci ha creati» (ivi, p. 177).

Ecco che Weil smonta dall’interno un racconto che si presterebbe a una semplificazione pericolosa, come quella della relazione Dio-uomo sotto il segno della forza e dell’opposizione. Ora riaffiorano due versioni dello stesso evento di Genesi che, solo a causa del fatto di presentarsi come racconto umano, si trovano separate in “creazione” e “peccato originale”, ma che, più profondamente, raccontano lo stesso evento fino a corrispondersi: «ciò che è la creazione dal punto di vista di Dio è peccato dal punto di vista della creatura» (ivi, p. 240). In questo senso, il peccato non coincide con l’atto compiuto da Adamo ed Eva, ma con una condizione, che essi attivano volendo diventare “arbitri”, conoscitori del bene e del male, creatori e artefici della morale.
Anche il figlio prodigo della parabola evangelica rivendica dal padre la parte di eredità che gli spetta di diritto, per poterne disporre da arbitro assoluto. Sembra così ripetersi l’evento del peccato originale, in cui ancora più nitidamente emerge la coincidenza del peccato con il libero arbitrio e con la volontà: «“Dammi la mia parte” è il peccato originale. Dammi il libero arbitrio, la scelta del bene e del male» (ibidem). Il tono rivendicativo del diritto, con cui si esprime l’arbitrio, segue un modello meramente retributivo e si collega alla spartizione e alla quantità. Il padre della parabola non si oppone alla richiesta del figlio e attende che egli sperperi la sua fortuna. Quando egli ha consumato il patrimonio su cui esercitare il proprio arbitrio, solo allora, come ricorda il Vangelo, rientra in se stesso: «Se il figlio avesse vissuto parsimoniosamente, non avrebbe mai pensato a tornare» (ibidem). Dando fondo a tutti i suoi averi, e solo a quel punto, «si desidera essere semplicemente una parte del mondo, come una pietra, piuttosto che essere se stessi. Allora il Padre uccide il vitello grasso» (ivi, p. 263). L’attenzione va al necessario dilapidamento, al dispendio ed esaurimento dell’energia volontaria che aveva fatto desiderare al figlio il distacco dal padre e che ne manteneva la distanza. Il figlio (la creatura) deve distruggere il dono con cui era stato creato (il libero arbitrio), per una nuova creazione:

«noi siamo di fronte a Dio come un ladro al quale la bontà di colui che egli vuole derubare permette di portare via l’oro. Quest’oro, dal punto di vista del legittimo proprietario, è un dono; dal punto di vista del ladro, è un furto. Questi deve tornare indietro e restituirlo. Così è per il nostro essere. Abbiamo rubato un po’ d’essere a Dio per impossessarcene. Dio ce l’ha donato, ma noi l’abbiamo rubato. Bisogna restituirlo» (ivi, pp. 314-315).

Simone Weil ci restituisce il racconto del peccato originale e del pentimento in una nuova luce. Ci sono dei rimedi al veleno inoculato dal libero arbitrio e che ne contengono l’antidoto nell’inflessibile legge della necessità, come la scienza e la matematica, di cui è intessuto l’ordine del mondo, o come il lavoro, che non rappresenta una pena conseguente al peccato, preesistendo a esso, bensì il compito originario dell’uomo, che lo vincola alla preziosa legge della necessità materiale, che limita e argina la sua naturale propensione a espandersi.


«Il peccato di Adamo e il tempo» (Weil 1997, p. 207)

«Come lo spazio limitato indica che c’è una realtà non spaziale infinitamente più grande della totalità dello spazio, la creazione e la fine del mondo indicano che c’è una realtà non temporale infinitamente più grande della totalità del tempo» (Weil 1995, p. 68). Conseguenza del peccato non è la sventura né la condanna del lavoro, ma è il tempo, di cui il peccato originale è la condizione trascendentale (cfr. Weil 1997, p. 97). Il peccato non è propriamente un atto, ma uno stato che precede ogni atto:

«L’umanità intera ha peccato atemporalmente nel possesso della propria volontà. Essa è stata creata con una volontà propria e la vocazione a rinunciarvi (…). L’ordine di Dio era un’ordalia comprovante che Adamo aveva una volontà propria (...). È evidente che non c’è stato un periodo di tempo in cui egli era in stato di innocenza» (ivi, p. 207).

Per cui: chi è senza peccato? Nessuno, perché gli esseri umani sono creati con una volontà propria, in cui consiste il loro stato di peccato e tutti vivono nel tempo. Al tempo siamo sottomessi, ci conduce dove non vorremmo, ci fa violenza, ci turba: inesistente, ci copre d’irrealtà. Il tempo è dove è andato a stare il figlio che ha preteso la sua parte di eredità da sperperare. Solo consumandola/si in esso, ritorna al padre, ossia all’eternità. E così in questa croce e nel saperla portare (la perfetta letizia di San Francesco) si produce lo sradicamento dall’inessenziale, per cercare qualcosa di più reale: «Tagliare l’albero e farne una croce, e poi portarla tutti i giorni» (ivi, p. 250). Il tempo, che è la nostra croce, «nel suo scorrere logora e distrugge ciò che è temporale» (Weil 1995, p. 125), proiettando l’anima nell’eternità. In questo senso esso non è solo condanna, ma anche ponte per l’eternità:

«In un certo senso (ma in quale?) il peccato originale, la cacciata dal Paradiso terrestre, la Passione, la Resurrezione, si verificano nello stesso tempo in ogni istante. Ma in un certo senso (in quale?) sono eventi storici. Perché sono realtà, non solo in cielo, ma anche sulla terra. E non vi è altra realtà quaggiù oltre ciò che si verifica in un luogo, in un istante» (ivi, pp. 250-251).

Sono altezze vertiginose quelle a cui ci conduce Weil, come quando fa riferimento alla quarta dimensione:

«Dio e l’umanità sono come un amante e una amante che si sono sbagliati circa il luogo dell’appuntamento. Ciascuno è lì prima dell’ora, ma sono in due posti diversi, e aspettano, aspettano, aspettano. Lui è in piedi, immobile, inchiodato al posto per la perennità dei tempi. Lei è distratta e impaziente. Sventurata se ne ha abbastanza e se ne va! Perché i due punti in cui si trovano sono lo stesso punto nella quarta dimensione…» (Weil 2005, p. 178).

Lo spazio temporale può far sì che Dio e l’umanità manchino il loro appuntamento. Ma solo nel tempo, nel quale è stato abbandonato, l’uomo sperimenta la sua decreazione: «L’abbandono in cui Dio ci lascia è il suo modo proprio di accarezzarci. Il tempo, che è la nostra unica miseria, è il tocco stesso della sua mano. È l’abdicazione mediante la quale ci fa esistere» (ivi, p. 179).


Intorno a un albero

La pianta del giardino è una pianta simbolica che la tradizione, a partire dal Medioevo, vuole di melo, malus domestica, il cui nome si collega al malum (male) e a malus (cattivo). Dal punto di vista botanico, il suo è un “falso frutto”, poiché si forma per accrescimento del ricettacolo fiorale insieme all’ovario. Il “vero” frutto del melo è il torsolo non commestibile. Non posso fare a meno di pensare che Weil avesse presente questo discorso quando, riferendosi alle anime sante, scrisse: «hanno un’immensa responsabilità. Spetta a loro testimoniare, come un melo in fiore» (Weil 1995, p. 131). I fiori non si possono infatti mangiare; sono di una delicata bellezza e «il bello è ciò che si desidera senza volerlo mangiare. Desideriamo che esso sia» (Weil 1997, p. 294). I fiori degli alberi da frutta, pur nella loro fragilità, profumano di eterno: anche la caduta dei loro petali indica che «la cosa più preziosa non è radicata nell’esistenza (...). Proietta l’anima fuori dal tempo» (ivi, p. 215).
Weil torna diverse volte sulla distinzione tra il guardare e il mangiare il frutto, ispirata anche da un passo delle Upaniṣad, a cui accosta l’osservazione che Adamo ha mangiato il frutto dell’albero (cfr. ivi, p. 249), che potrebbe farsi commentare da un’annotazione successiva: «Il grande dolore dell’uomo (...) è che guardare e mangiare sono due operazioni differenti. La beatitudine eterna (mito del Fedro) è uno stato in cui guardare è mangiare (...). Il peccato originale ha prodotto in noi questa separazione» (Weil 1995, pp. 378-379). Per questo è necessario rinunciare al frutto: questo l’insegnamento che proviene dalla prima scena di Genesi. Anche nelle fiabe Weil rintraccia la figura ricorrente della mela, come in Biancaneve e ne Il ginepro dei fratelli Grimm: in entrambi i casi intorno al frutto si sviluppa una trama di morte e di rigenerazione di un essere puro. «Quel che si mangia, lo si distrugge. Di quel che non si mangia, non si afferra pienamente la realtà. Nel mondo soprannaturale, l’anima “mediante la contemplazione mangia la verità”». E conclude questo pensiero con una frase dalle Upaniṣad: “Questo tutto, mangialo mediante la rinuncia” (ivi, p. 152). Quindi, «non è mangiando un frutto, come credeva Adamo, che si diviene uguali a Dio, ma passando per la Croce» (ivi, p. 83).
Sono convinta che Weil fosse affascinata dalla I sezione di Genesi, come d’altronde conferma il suo interesse per le grandi narrazioni dell’antico oriente, che condividono il contesto culturale del racconto genesiaco. La figura dell’albero, simbolo della tradizione sapienziale, è centrale anche nel suo pensiero, perché collega il radicamento, il nutrimento dalla terra, all’energia che discende dal cielo e rigenera la sua linfa. La figura dell’albero mette quindi assieme abbassamento ed elevazione e riveste un significato profondamente spirituale, come l’albero di senape il cui chicco, che cresce nella nostra anima, è immagine del Regno di Dio. Ciò che della figura vegetale attira la sua attenzione è la legge necessaria di cui l’albero è manifestazione, la non arbitrarietà all’opera in natura e che assurge a modello del mondo umano: «Essere di fronte alla natura, non agli uomini, è la sola disciplina» (Weil 1982, p. 137), ossia l’unico argine all’arbitrarietà. Intorno all’albero avviene il peccato, ma anche la rigenerazione possibile, tant’è che il peccatore buono è colui che ha in sé «il germe del pentimento» (Weil 1995, p. 209) e la punizione dev’essere guidata dalla «fede che al fondo dell’essere colpevole c’è un seme di bene puro» (Weil 2005, p. 377).
Come in Genesi tutta la vicenda ruota intorno a un albero, anche il movimento che Dio sollecita nell’uomo e su cui insiste Weil deriva il suo significato dal regno vegetale: la “decreazione”, che consiste nella rinuncia a sé e al proprio io, trova infatti nel termine di “sradicamento” il suo nome proprio. Esso riveste nel suo pensiero due significati nettamente opposti: lo sradicamento come effetto della forza, praticato “dal di fuori”, che strappa dalla vita, gettando nell’irrealtà, nell’idolatria e nella morte (che è ciò che si produce nel gesto adamitico); e uno “sradicamento” nella forma della decreazione, che si presenta come un movimento “dal di dentro”, che ha l’effetto di estirpare proprio quelle illusioni che fanno credere all’essere umano di possedere un potere sugli altri e sul mondo, e che si ispira alle parole di San Paolo: «“affinché si atrofizzi il corpo del peccato (come un terreno lasciato a riposo)” (...). È necessario che qualcosa nel corpo venga sradicato» (Weil 1995, 129). Lo sradicamento operato nella decreazione permette di radicarsi nella realtà del bene: «Sottrarre l’io al peccato significa sradicarlo» (Weil 1997, 213).
L’immagine dell’albero della conoscenza del bene e del male è evocata anche nel saggio Questa è una guerra di religione (Weil 2013), perché al centro è l’opposizione di bene-male come intollerabile peso di cui ci hanno caricati Adamo ed Eva, carbone ardente che l’umanità cerca continuamente di gettare lontano da sé, o mediante l’irreligiosità o mediante l’idolatria. Si tratta per Weil di percorsi impossibili, mentre l’unico modo per superare quel dilemma sta nella via proposta dalla mistica, in cui l’anima si orienta alla realtà del bene assoluto, incommensurabile rispetto a quella correlazione. Mentre l’irreligiosità nega l’opposizione, l’idolatria presume di affrontarla, adorando una realtà umana che, assolutizzata, si ritiene esente dal confronto con la questione del bene e del male. Ma, restando dentro al tempo, in una realtà pur sempre mondana, l’idolo è destinato a degradarsi.
È dal patrimonio fiabesco che Weil trova le parole giuste per esprimere il modo di avventurarsi sulla via mistica: un uomo ha sette anni per raggiungere la sua promessa sposa, una principessa, ma si trova davanti a una foresta impenetrabile. Chiede quindi consiglio a un saggio:

«Il saggio dice: “Attraversa la foresta, è dall’altra parte. Ma probabilmente non riuscirai ad arrivarci neppure in sette volte sette anni. Tutti quelli che hanno tentato sono morti, o hanno rinunciato”. Il calzolaio si dirige verso la foresta, si procura delle asce, si mette a tagliare, perché non c’è alcun sentiero. Più egli taglia, più in fretta la foresta ricresce. Tenta altrove, e altrove e altrove: è sempre lo stesso. Per sfuggire a un leone, sale su un albero; da lì vede la distesa immensa della foresta. Si dispera. Ma ricorda le parole del saggio: “Attraversa la foresta”. Gli viene in mente di procedere da una cima d’albero a un’altra cima d’albero. Ci mette sette anni. Alla fine si trova davanti a un castello in festa. La principessa si sposa il giorno dopo. Ci va, in brandelli, irriconoscibile. Sposa la principessa. Il significato mistico è evidente (…). Bisogna attraversare il male, giungere al termine del male, per raggiungerlo. Ci si attacca al proprio peccato, si taglia, si tronca; ma esso ricresce più in fretta. Non c’è niente da sperare con questo metodo. Bisogna passare al di sopra del peccato. È un tragitto penoso, lento, ma possibile. Si avanza veramente e si arriva al termine. Cosa sta a indicare questo modo di procedere, al di sopra del male come un uomo che va da una cima d’albero a un’altra cima d’albero? Non si tenta di abolire il male in sé, ma di arrivare al suo termine. Attraverso tutti i peccati pensare al bene. Non pensare al male da distruggere, ma al bene» (Weil 2005, pp. 282-283).


«Da una cima d’albero a un’altra cima d’albero». L’albero della croce

«Eva e Adamo hanno voluto cercare la divinità nell’energia vitale. Un albero, un frutto. Ma essa ci è preparata su un legno morto geometricamente squadrato dal quale pende un cadavere (...). La storia del Cristo è legata a quella di Adamo» (Weil 1997, p. 162). Un mistero avvolge la simmetria tra l’albero edenico della conoscenza e l’albero della Croce a cui appartiene la Saggezza divina (cfr. ivi, p. 161), che si producono in un effetto capovolto, perché dal primo viene la morte, mentre Cristo trasforma la croce in albero di nuova vita. Del simbolo dell’albero del bene e del male la Croce è realizzazione, perché mentre là, con il peccato, si arriva a una cattiva unione dei contrari, qui «la Croce simbolizza a un tempo l’unione e la separazione dei contrari, e l’unità di questa unione e di questa separazione» (Weil 1995, p. 299). Nella contraddizione, che la croce mantiene in un punto di equilibrio, è superato l’antagonismo e la gara tra forze.
Volere imitare l’azione divina nel suo significato di potenza coincide con l’attivazione del peccato presente nell’uomo. La risposta è nell’epifania di un Dio-neonato e in quella di un Dio-crocifisso: il Dio senza potere. «Che cosa c’è di più forte del più forte? L’estrema debolezza: un morto o un neonato» (ivi, p. 290).
Se dall’albero della conoscenza del bene e del male l’uomo ha tentato di rubare la divinità, scambiata con l’illusoria potenza conferita dal libero arbitrio, ora dall’albero della croce Cristo dona la possibilità di essere davvero come Dio, restituendo il libero arbitrio che l’umanità aveva rubato e imparando l’obbedienza (cfr. Weil 2005, p. 241). Anche Cristo è stato sottoposto alla tentazione del potere, ma Egli l’ha respinta perché ha riconosciuto il potere della forza e non vi si è sottomesso: «Il Cristo e la tentazione dei regni del mondo. Scelta opposta a quella di Adamo» (Weil 1997, p. 143).
L’incarnazione non mostra un dio potente, che ci getta faccia nella polvere, occhi abbassati al suolo, peccatori e meschini. Non è il dio-giudice che incute il terrore che raggela, ma il dio-giudicato che si carica di tutti i peccati e che subisce la forza, trasformando il peccato in sofferenza. È il dio crocifisso, che chiede di cadere verso l’alto, di alzarsi, come nell’evento della trasfigurazione. O che, davanti alla tomba di Lazzaro, grida: “Vieni fuori”. E che, davanti al paralitico, dice: “perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere in terra di rimettere i peccati: Alzati, prendi il tuo letto e va’ a casa” (Mt 9,6). È un dio che rimette in cammino, che risveglia, che elimina l’immobilità e svuota l’opposizione tra un dio distante nella sua assoluta perfezione e un essere umano imperfetto e caduco, che ritroviamo anche nella versione contemporanea della finitude, che finisce per trovare rifugio nella fittizia assolutizzazione del poco che si è. Qui nessun fronteggiamento tiene, si frantuma il gioco di specchi deformanti: l’essere umano può ritrovare la strada di casa.

* Questa ricerca ha ricevuto il sostegno dell'Università del Piemonte Orientale e si configura come un prodotto originale/ This research is original and has a financial support of the Università del Piemonte Orientale.


Bibliografia

Weil S. (2014), La rivelazione greca, a cura di M.C. Sala e G. Gaeta, Adelphi, Milano. - (2013), Questa è una guerra di religione, in Id., Una costituente per l’Europa. Scritti londinesi, a cura di D. Canciani e M.A. Vito, Castelvecchi, Roma.
- (2011a), Le conte des six cygnes dans Grimm (1923), in Oeuvres, Gallimard, Collection Quarto, sous la direction de F. de Lussy, Paris.
- (2011b), En quoi consiste l’inspiration occitanienne? (1942), in Œuvres, Gallimard, Collection Quarto, sous la direction de F. de Lussy, Paris.
- (2008), Attesa di Dio, trad. it. di M.C. Sala, Adelphi, Milano.
- (2005), Quaderni. Volume quarto, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano.
- (1997), Quaderni. Volume secondo, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano.
- (1996), Lettera a un religioso, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano.
- (1995), Quaderni. Volume Terzo, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano.
- (1982), Quaderni. Volume primo, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano.



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